giovedì 17 febbraio 2011




### Il Laos fu psicologicamente una perfetta preparazione al mio decidere di non volare e di mettermi così, in qualche modo, fuori dal tempo.
Come paese, il laos, istintivamente, ha per anni scelto di fare lo stesso. Senza un accesso al mare, al riparo da impervie montagne che lo isolano dalla Cina e dal Vietnam, protetto dal Mekong che lo separa dalla thailandia, senza un singolo ponte che unisce le due rive, il Laos, nonostante le guerre, le invasioni e le pressioni dei suoi vicini, ha continuato nel suo antico, distaccato ritmo di vita. Il calendario anche lì dice che siamo nel ventesimo secolo, ma la testa dei laotiani resta in un'epoca tutta loro e da cui non hanno alcuna intenzione di uscire.
I thailandesi, dopo aver costruito grandi autostrade che arrivano fino alla loro sponda del Mekong, hanno in mille modi suggerito ai laotiani che sarebbe bastato un ponte per permettere loro di innestarsi al sistema stradale thai e avere così un accesso diretto al porto di Bangkok e un punto di facile ingresso per i turisti, portatori di dollari. I Lao non si sono fatti convincere. "No, grazie. Il ponte non ci serve", hanno risposto ogni volta. "Vogliamo continuare a vivere a modo nostro".
Purtroppo anche quel modo sta per tramontare. Non perché i lao abbiano improvvisamente cambiato idee, ma perché oggi un paese al bivio fra la modernizzazione-distruzione e un isolamento che conservi la sua identità è in realtà senza scelta: gli altri hanno già scelto per lui. Gli uomini d'affari, i banchieri, gli esperti delle organizzzioni internazionali, i funzionari dell'Onu e quelli dei governi di mezzo mondo sono ormai tutti convinti profeti dello "sviluppo" a ogni costo; tutti credono in una sorta di missione, per tanti versi simile a quella del generale americano che in Vietnam, dopo aver raso al suolo un villaggio occupato dai vietcong, disse, con l'orgoglio di chi è convinto d'aver compiuto un'opera meritoria: " Abbiamo dovuto distruggerlo per salvarlo".
Al Laos sta succedendo lo stesso: per salvarlo dal sottosviluppo, i nuovi missionari del materialismo e del benessere economico lo stanno distruggendo. il colpo più duro l'hanno dato gli australiani. Con l'idea di far del bene, il governo di Canberra ha costruito, a mo' di regalo, appunto un gran bel ponte sul Mekong e il Laos perde ora con quello la sua ultima verginità. Con il loro innato sospetto per tutto quel che è nuovo e moderno, i laotiani lo chiamano già "Il Ponte dell'aids".

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Al momento basta ancora metterci piede per sentire che nel Laos c'è qualcosa di unico e di poetico nell'aria: le giornate sono lunghe e lente e la gente ha una quieta dolcezza che non si trova nel resto dell'Indocina. I francesi, che conoscevano bene i popoli delle loro colonie, dicevano: " I vietnamiti piantano riso, i khmer li stanno a guardare e i lao ascoltano il riso che cresce".
Io i piedi ce li misi per la prima volta nella primavera del 1972. Su uno dei terrazzini dell'Hotel Constellation a Vientiane, c'era una ragazza hippie, bionda, che fumava una sigaretta di marijuana così forte che se ne sentiva l'odore per tutte le scale. Vedendomi arrivare, come volesse confidarmi una formula segreta per capire tutto, mi sussurrò: " Ricordati, il Laos non è un posto; è uno stato d'animo".
Non l'avevo certo dimenticato e volevo rivedere il Laos prima che anche lui, vent'anni dopo, diventasse un posto, un posto come tutti gli altri: illuminato al neon, invaso dal cemento e dalla plastica.

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Arrivando a Luang Prabang, l'avevo trovata affascinante come la ricordavo, acquattata nella sua valle verde e umida, circondata da picchi che paiono dipiti da un pennello cinese, dominata dalla collina di Wat Pusi da cui tutto lo splendore dei templi, costruiti in saggio disordine sulla striscia di terra fra il Mekong e il Nam Khan, appare come dovesse essere eterno.
All'alba avevo rivisto lo struggente spettacolo di centinaia di bonzi che escono dai loro monasteri e sfilano lungo l'acciottolato della via principale per ricevere le offerte di cibo dalla popolazione inginocchiata sui marciapiedi. Si, proprio quella: la via che avrebbe dovuto diventare parte dell'autostrada dell'asia! Fortunatamente - scoprii - alcuni vecchi residenti avevano trovato il coraggio di opporsi al progetto e lo stesso governatore si era pronunciato a favore di un'alternativa: un raccordo che passasse fuori dalla città. Luang Prabang dunque si salverà? Niente affatto. Un altro progetto, che nessuno mette in discussione, trasformerà l'attuale, modesta pista di atterraggio in un grande aereoporto, capace di ricevere i jumbo carichi di turisti.
Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d'infanzia, a una Disneyland senza confini. Presto anche nella vecchia, remota capitale reale del Laos sbarcheranno a migliaia questi nuovi invasori, soldati dell'impero dei consumi e, con le loro macchine fotografiche, le loro implacabili videocamere, gratteranno via quell'ultima naturale magia che lì è ancora dovunque.
Perchè in Asia quando un vecchio si vede puntare addosso una macchina fotografica, si volta, resiste, cerca di nascondersi, si copre la faccia? Lo fa perché pensa che quella macchina gli porterà via qualcosa di suo, qualcosa di prezioso che non può ritrovare. E non ha forse ragione? Non è anche nell'usura di decine di migliaia di foto, scattate da turisti distratti, che le nostre chiese hanno perso la loro sacralità, che i nostri monumenti hanno perso la loro patina di grandezza?
Il Tibet, per proteggere la propria spiritualità, ha impedito per secoli a chiunque di varcare i suoi confini ed è così che ha mantenuto la sua specialissima aura. Lì, a rompere l'incanto è stata l'invasione cinese: anche quella avvenuta, ovviamente, in nome dello sviluppo. Una delle notizie più sconcertanti che ho letto di recente è che i cinesi, per facilitare - e che altro? - l'accesso ai turisti, hanno deciso di "modernizzare" l'illuminazione del Potala, il palazzo-tempio del Dalai Lama, e ci hanno introdotto il neon. Non l'hanno certo fatto a caso: il neon uccide tutto, anche gli dei. E con loro muore sempre di più anche l'identità dei tibetani. ###

da Un indovino mi disse

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